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       FILOLOGIA ECONOMICA

           da "LE UNDICI REGOLE DEL BENE COMUNE" di Amedeo Nigra

 

 

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Riportiamo i primi paragrafi del Capitolo Sesto, delle "Le Undici Regole del Bene Comune" dedicato alle conclusioni di "filologia economica"

 

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CAPITOLO VI

FANTASIE DI FILOLOGIA ECONOMICA IMMAGINIAMO IL SEGUITO DELLE UNDICI REGOLE:

Basta usare la parole “bene”, e le borse salgono.  Ma, allora, chiediamocelo: la parola bene è forse il primo mattone dell’economia? E, se così fosse, cosa attendiamo a usare questa parola, in modo capillare, in ogni angolo del mondo?

  

 

1.     Cosa fare, in tempo di crisi? Ricorriamo all’immaginazione e chiediamoci: perchè, a parità di condizioni, alcuni popoli si sviluppano e altri no?

                                                         Come scrive il  filosofo Leibniz, la riflessione è la capacità di attingere, dal proprio essere, la conoscenza di cose non apprese con l’esperienza e, cioè, è la capacità di conoscere  cose non conosciute.

Diciamo la verità. Se non ci fosse l’immaginazione, non ci sarebbero né i medicinali, né gli aviogetti, e neppure il fuoco e le prime invenzioni, come la ruota, il pugnale di pietra, eccetera. Invece, abbiamo l’immaginazione. La quale è dunque un obbligo, soprattutto, in tempo di crisi.

Peraltro, quando si parla di invenzioni (e, quindi, di immaginazione creativa), tutti pensano agli scienziati, come Einstein o Von Brown o Bateson. In realtà, anche il sociale, anche l’economia, anche la legge, hanno bisogno di invenzioni. Il grande cancelliere prussiano Bismark, immaginò per primo le pensioni, così come le vediamo oggi. Tutto il mondo lo imitò, dimostrandoci così, come sia importante anche un solo uomo e anche una sola “piccola” idea, iniziata, quasi per caso, in un punto qualsiasi della terra.

Ora, sullo sviluppo e sulla solidarietà, dovremmo chiederci: ma è sufficiente fare leggi, su leggi? Inoltre, è ancora sufficiente predisporre le usuali manovre finanziarie? Queste ultime, infatti, come le leggi, d’altra parte, sono giuste e necessarie, certo, nessuno dubita di questo. Ma la realtà ci dice che non sempre risolvono i problemi perchè molto spesso risultano inefficaci o inapplicate.

Quindi, esiste “qualcosa di aggiuntivo”, che tutti noi potremmo fare? Inoltre e, in particolare, perchè, a parità di condizioni, alcuni popoli si sviluppano e altri no? Se tutti disponiamo di leggi e di manovre economiche, cosa risulta determinante, per il successo?

Ecco i quesiti. Si tratta di domande, in un certo senso, bibliche, enormi, impossibili. Tentiamo, comunque un approccio, facendo presente che le annotazioni che seguono, sono frutto di pura fantasia dell’autore e che, pertanto non rappresentano  una linea ufficiale di alcuna organizzazione.

L’importante è iniziare una discussione sul bene, il grande assente della nostra letteratura.

 

2.     Il principio dello sviluppo è costituito dall’esempio personale: così si accende l’imitazione ossia il “social empathic learning”.

Il principio Cristiano: “Fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi stessi” accende l’effetto imitativo e diffonde il progresso economico.

Secondo un pensiero diffuso, in alcuni casi, in America, gli States dovrebbero il loro successo economico e culturale, alla sigla WAP (White, Anglosaxon, Protestant) ossia alla loro provenienza anglosassone, bianca e protestante. In realtà (pur osservando con ammirazione il grande successo dell’America e l’uso positivo, e vantaggioso per tutto il mondo, che gli stessi americani fanno del loro potere globale), occorre dire come quelle tre caratteristiche, non siano di per sé decisive, per il successo americano e come la ragione dello stesso primato degli Stati Uniti, vada cercata altrove, in altre qualità, pur presenti negli States, ma presenti anche in altri popoli e in altri periodo storici.

In particolare, la sigla WAP non consente di spiegare - ad esempio e tra tanti casi che potremmo trattare - perchè le “BIG THREE” ossia le tre più grandi costruttrici di automobili nel mondo (Ford, General Motors, Crysler), siano state superate dalla Toyota, ossia da un’impresa, che non ha nessuna delle tre caratteristiche WAP, in questione.

E (sempre limitandoci al solo WAP) non si spiega neppure come e perchè, possa essere nato il famoso “Metodo Toyota” (trattato da molta letteratura economica americana), ossia come possa essere sorto (senza “WAP”) un modo di lavorare, particolarissimo e vincente e, come tale, in grado di prevalere su tutti i mercati.

Ora, gli USA hanno certamente una marcia in più, dovuta al fenomeno chiamato “American Dream”, il noto sogno americano (con una forte componente cristiana e protestante), ma questo non è ancora sufficiente a spiegare la radice prima del loro successo e quello degli altri popoli, in altri periodi storici.

Forse (il dubbio, come sempre, è d’obbligo), il successo economico dipende da una caratteristica generale “filogenetica”, ossia da una qualità generale presente nell’uomo e nei suoi geni.

Così (e, cioè, ammettendo questa qualità filogenetica), si spiegherebbe perchè nella storia, si siano alternati ai vertici del mondo, popoli e razze diverse, ad esempio, dai Greci, ai Macedoni, ai Mongoli, agli Arabi, ai Romani, ai Franchi, ai Goti, agli Anglosassoni, eccetera.

Dunque, e venendo a noi, l’Arcivescovo Camillo Ruini, in una intervista di qualche anno fa, al Corriere della Sera, aveva ricordato come il principio Cristiano: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te e fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, avesse dato a tutto l’occidente la sua grande umanità, in tutti i settori e, quindi, anche nelle scienze e nella stessa economia.

Ma c’è una ragione biologica (e soprattutto economica), alla fonte di quel successo. In sintesi, quelle semplici parole “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” sanno toccare il cuore delle persone. E, in questo modo, sanno raggiungere il “sè naturale” degli uomini, attivando così “il contagio”, la imitazione empatica, e la ripetizione sociale di quel comportamento ossia il fenomeno del “social empathic learning”.

In pratica, l’esempio e il comportamento del “fare bene” diffonde a macchia d’olio lo stesso “fare bene”, per imitazione reciproca. Tutto si attiva, con un meccanismo di empathic learning, di cui siamo dotati, non solo in economia, ma in tutte le nostre attività.

Le persone tendono ad agire a specchio. Vedono un atteggiamento e subito hanno l’idea e sono portate a ripeterlo. La spinta alla ripetizione, poi, sarà tanto più forte e convinta, quanto più intenso e quanto più spirituale, sarà l’esempio che viene osservato. Se questo esempio giungerà a toccare il nostro cuore e l’idea di bene, che è scritta dentro di noi, la spinta all’imitazione, data dall’esempio, raggiungerà il massimo. E le persone saranno appunto portate a imitare ciò che hanno visto.

Imitazione empatica significa, appunto, che l’atteggiamento è preceduto da una componente  spirituale.

La decisione di agire parte dal se naturale dell’uomo. Parte, per l’appunto, da quelle inclinazioni e da quelle qualità, che sono scritte in noi  e che ritroviamo nei  personaggi descritti, in tante opere antiche e  – ad esempio – narrati nelle pagine dell’Iliade e dell’Odissea.

Quegli scritti sono sorprendenti. I vizi e le virtù degli uomini, descritti in quelle opere appaiono comprensibili oggi come erano comprensibili ai tempi di Omero, più di 2500 anni or sono.

Quelle qualità, sono “filogenetiche”, sono connaturate con l’uomo. I compagni di Ulisse, trasformati in porci dalla Maga Circe, sono un esempio eterno del cammino dell’uomo, tra i vizi e le virtù. Noi comprendiamo quelle storie, perchè le leggiamo, in tante vicende che passano davanti ai nostri occhi, ogni giorno.

Allo stesso modo noi ci commuoviamo, leggendo Leopardi o Shakespeare, oppure assistendo agli spettacoli cinematografici, proprio per via della condivisione empatica, di ciò che vediamo.

“Amor che a nullo amato amar perdona”, scriveva Dante, nel Canto  dell’“Inferno”, dedicato a Paolo e Francesca. E, con queste parole, ci rappresentava la regola che abbiamo appunto descritto, relativamente alla imitazione empatica, una regola che i sociologi e i biologi stanno riscoprendo ora, partendo da Edward Wilson (“Sociobiology”, 1975, USA), per proseguire con tanti altri studiosi, come Matt Ridley, che ci parla proprio di un meccanismo genetico di costruzione della cultura, attraverso l’imitazione (“Nature via Narture”, “Genes, Experience and What Makes Us Human”, GB, 2003).

In pratica, la forza dell’esempio, dato dalle nostre azioni, genera  di riflesso la imitazione. Una imitazione, tanto più forte, quanto più basata sui sentimenti e, quindi, quanto più fondata su una nostra condivisione interiore. Nel caso ricordato con Dante, l’amore di Francesca aveva fatto si che Paolo la riamasse. Chi ama, a sua volta è amato, così come chi riceve del bene, a sua volta, è portato a dare altro bene. Questa è la nostra vocazione.

Queste riflessioni ci confermano la fondatezza di quanto affermato dal Cardinal Ruini. Dare l’esempio del bene, in pratica, dà vita ad una forma di ricambio sociale. E, se il fenomeno diventa collettivo, l’economia ne ha un beneficio.

Ma, intendiamoci, non basta “essere cristiani”, perchè tutto funzioni a regola d’arte. Certo, questa religione è importante, non c’è dubbio, perchè è alla fonte di un grande pensiero, che tocca il cuore dell’uomo. Peraltro, ciò che più importa, per la nostra vita quotidiana, è che – essendo cristiani o meno – si segua l’idea dell’anticipare le esigenze degli altri, per offrire loro ciò che loro stessi vorrebbero. Questa è una regola che risulta sempre vincente.

Il grande successo delle imprese e dei commerci – ad esempio – sta proprio nel  fatto che gli operatori partono sistematicamente dai “consumer needs”, ossia dai desideri delle persone.

Il fare abitualmente agli altri, “ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi”, gratifica non solo i diretti interessati di questo beneficio, ma gratifica anche coloro che osservano e che saranno portati a realizzare una imitazione tacita, dettata da ciò che è scritto  nei loro geni.

Chi sa che la sua controparte farà spontaneamente di tutto, per offrire ciò che il suo interlocutore desidera, aumenterà la propria fiducia. E sarà pronto a contraccambiare.

Il meccanismo (ancora una volta) è quello che ci porta a commuoverci di fronte alla commozione di un nostro simile e che ci porta a provare simpatia per chi ha simpatia per noi o a chiudere gli occhi automaticamente, di fronte a un moscerino che vola verso di noi.

Genetica e automatismo, vanno di pari passo.

Proprio in noi, sono scritti alcuni meccanismi biologici automatici innati. Vedendo un serpente boa, a un centimetro dal nostro volto, ad esempio, noi proveremo orrore, anche se non l’abbiamo mai visto in vita nostra. Ma un altro serpente boa, al contrario, nella stessa situazione, avrebbe una reazione opposta alla nostra. E proverebbe interesse, gioia e spirito di fratellanza.

La differenza nei due esempi, sta nei nostri geni e nel riconoscimento, che è scritto in noi.

Così, quando vediamo qualcuno che agisce a nostro favore, siamo portati a ricambiare. Scatta in noi un meccanismo di imitazione naturale, che – come si è detto – si ripete, in chi ci osserva.

L’Italia ha tanti tesori artistici (più di ogni altro Paese) proprio perchè tutte le città, i paesi e i loro abitanti, si imitarono, in una corsa alla creazione di opere d’arte. Il fenomeno (social empathic learning) potrebbe dare lo stesso risultato, ove fosse usato per il bene comune.

Eccoci così giunti ad ipotizzare quel “qualcosa” in più, che può generare un miglioramento dell’economia: la tensione verso il bene. Questo qualcosa è semplicemente, il “piccolo” pensiero-guida, diretto all’idea, di fare agli altri, ciò che vorremmo fosse fatto a noi.

Per realizzare l’importanza di questo “semplice” accorgimento, per tutta la economia, è sufficiente riflettere, su come agiremmo noi stessi, ossia su come potremmo comprare, vedere, assumere personale, eccetera, se dentro di noi avessimo la certezza, che la nostra controparte farà di tutto per fare ciò che noi ci aspetteremo da lei. Diciamo la verità, in un mondo così, faremo di tutto e di più.

Certo, nulla è definitivo. E, oltre a quanto si è detto, occorrerebbero anche le opere concrete, le idee e i capitali. Ma non si può certo negare, appunto, quanto sarebbe importante lavorare in un ambiente, dove l’idea di bene fosse diffusa e tangibile.

 

3.     Attenzione: teniamo sotto osservazione “i rumors” e promuoviamo i rumors sul bene comune. Perchè solo così potremo avere uno sviluppo positivo.

                                                      Virgilio, nell’Eneide, ci descrive il personaggio mitologico “Fama”, come un grande uccello, dotato di occhi sotto ciascuna piuma. Un fenomeno, che nell’antichità diffondeva le notizie in ogni luogo.

Diciamo la verità, il fenomeno della diffusione popolare delle notizie (ma anche dei valori di bene e di male), avviene oggi, con le stesse sorprendenti modalità, che ci descrivevano gli antichi, già 2000 anni or sono, con la figura mitologica della “Fama”.

Già allora, senza radio, senza televisioni, senza aerei, gli antichi conoscevano le vicende occorse anche lontanissimo da loro. Con questo fenomeno naturale (chiamato, appunto, mitologicamente “Fama”), gli uomini sapevano chi era il Greco Ulisse e conoscevano tutti gli episodi e i personaggi che avevano animato la guerra di Troia. Tutti conoscevano e avevano un’idea di patria, di onore, di disonore, concetti diffusi ovunque.

Ma oggi accade lo stesso. Le notizie corrono e guidano i mercati (ma anche le mode), con il fenomeno chiamato “rumors”, “voci”, ossia con le micro-comunicazioni popolari (e con le informazioni che le persone si scambiano), che sono credute, molto di più di quelle ufficiali.

Di fatto, la Fama e i rumors sono importanti, perché precedono l’azione concreta e, cioé, gli acquisti, le scelte, il lavoro. Le persone, infatti (e come è ovvio), non comprerebbero mai un prodotto, che abbia la reputazione popolare di essere “cattivo”, mentre si indirizzerebbero con decisione su quel prodotto che  venga ritenuto buono.

In pratica, chi ha creato – consciamente o inconsciamente - i titoli di nuova generazione e chi ha acceso la corsa alla creazione di nuovi strumenti finanziari, non si è curato della percezione popolare del bene, una percezione, che prima o poi avrebbe portato alla esplosione del problema.

Ma quel non curarsi della percezione popolare del bene, si è verificato, perchè la sostanza e la cultura del bene medesimo, non erano (e non sono) percepite, come un valore. Il bene, in senso lato, veniva (e viene) ritenuto una “cosa non utile”, non nostra.

È proprio questa la situazione e questo modo di pensare, che ha dato vita alle crisi finanziarie e alla “società liquida”, che ci descrivono molti sociologi.

Di fatto, l’assenza di uno scopo comune genera un disinteresse – ovviamente – per il bene comune.

Diciamo la verità, così stando le cose nella situazione attuale (di non percezione del bene), è logico che l’economia sia in difficoltà. Come può l’uomo della strada capire cosa sia giusto o cosa sia sbagliato, nella finanza e nel sistema economico, se gli stessi governatori delle banche centrali, dubitano della bontà dei bilanci di molte banche? E se queste ultime non si prestano reciprocamente somme di denaro, per lo stesso dubbio?

Il problema dell’economia attuale non è solo economico, ma è per così dire, “filologico”. Consiste cioè nel valore e nel significato che le persone comunemente assegnano, appunto, alle parole bene, buona economia, buon investimento, buona decisione.

Lunedì 10 Maggio 2010 la borsa italiana è salita del 11%, solo perchè tutti avevano percepito la determinazione dei governi nella tutela dell’euro e dell’economia. Quei governi, delle singole nazioni dell’Europa Unita, riuniti in piena notte per salvare l’euro erano una manifestazione concreta del “bene”. Quelle attività dei Governi Europei (proprio dirette a fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi), avevano rincuorato tutti e tutto, perchè erano spiritualmente e concretamente, indirizzate al bene.

Certo, non tutto è stato (ed è) risolto e ogni giorno bisogna ripartire da capo. Ma, quel dato episodio, ci segnala come sia importante la manifestazione del bene.

La nozione di bene, la sua diffusione e la sua percezione concreta (in una parola “i rumors” sul bene) vanno dunque promossi e utilizzati, così come utilizziamo, le imposte, i tassi di interesse, le leggi, i tribunali e ogni altra istituzione.

I rumors sono una leva. Usiamola.

Tutto questo e, cioè, una eventuale diffusione del bene (da parte delle cultura e dei governi) sarebbe forse indottrinamento? Dobbiamo opporci a questo indottrinamento per difendere la democrazia?

La domanda è legittima e sicuramente l’argomento va valutato, insieme a tanti altri, essendo appunto decisivo.

La prima considerazione da fare è che il bene è importante, perchè è lo scopo di tutto il nostro ordinamento giuridico e della nostra Costituzione della Repubblica, che lo cita espressamente. Quindi, se è importante, non possiamo non diffonderlo con le parole e con una pubblicità adatta.

Inoltre (e come seconda considerazione), se teniamo conto che la legge prevede l’obbligo di pubblicare gli avvisi di vendita alle aste giudiziarie (e se considerassero tanti altri obblighi di pubblicità ufficiali dello stesso tipo), allora dobbiamo comprendere che la diffusione del concetto di bene, di onestà, di rispetto del prossimo, sono almeno pari a quegli avvisi. Se ci preoccupiamo di fare pubblicità per una vendita all’asta, dobbiamo anche preoccuparci di migliorare la diffusione del bene.

 

(il libro prosegue poi con i paragrafi, da 4 a 8)

 

 


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