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Il Corriere della Sera - 2 Marzo 2001

Spot per la solidarietà milanese

LA PUBBLICITA' A FIN DI BENE

di GIORGIO FIORENTINI

I valori, i risultati e le modalità di finanziamento della solidarietà meneghina e lombarda devono essere comunicate tramite spazi pubblicitari sui giornali, spot televisivi su reti locali, affissioni stradali in periodi dell'anno che non siano solo luglio e agosto, ecc.. Milano ha bisogno di fare una "campagna pubblicitaria di solidarietà", da affidare ai creativi di cui la nostra città è sede e capitale. È giusto fare del bene in silenzio ma è necessario comunicare e amplificare le opere realizzate o le proposte per dare continuità alla cultura e a solidarietà Su questa affermazione a Milano e in Lombardia ci sono due punti di vista della solidarietà organizzata (circa 3.000 organizzazioni non profit in Milano e provincia e circa in 160.000 persone coinvolte attivamente in Lombardia).

Da una parte una concezione "catacombale", che ama il "fare senza far sapere" e agire secondo i criteri del solo understatement, quasi senza comunicare all'esterno le proprie virtù. Dall'altra una concezione di tipo pubblicitario e dl comunicazione, che io condivido, tale da diffondere i risultati e confrontarsi con i cittadini per far sapere e convincere, per fare proselitismo, per raccogliere finanziamenti. Milano deve premiare senza falsi pudori e senza reticenza gli uomini che fanno solidarietà e dare loro visibilità. È giusto lamentare l'indifferenza della gente nei confronti delle donne stuprate per strada, dell'agente di polizia malmenato da alcuni malfattori, delle persone che si sentono male per strada e non vengono aiutate. Tutto vero. Ma strumenti potenti, formativi, interventisti e riparativi come la comunicazione dei valori, a diffusione delle "istruzioni per l’uso", dei comportamenti virtuosi, la celebrazione mediatica della solidarietà vengono usati poco.

La solidarietà e un modello gratuito che però deve essere valorizzato, ci vogliono le condizioni perché possa aumentare la disponibilità delle persone. Ma perché bisogna usare lo strumento della pubblicità per il fine della solidarietà? Per fare azioni

- diffusive per raggiungere vari segmenti di popolazione e mirando ai mezzi di comunicazione più idonei alle caratteristiche dei cittadini. La diffusione della virtù civica e altruistica fra giovani ha bisogno di un linguaggio coerente e simmetrico, ma anche gli extracomunitari hanno bisogno di affissioni stradali nella loro lingua;

- imitative e capaci di creare comportamenti collegati anche all'imitazione di "leader e simboli della solidarietà". Sviluppando un terreno comune dei valori dell'altruismo, dello stare insieme ad altri in modo sociale, della mediazione culturale;

- fidelizzanti per mantenere i cittadini in un alveo di comportamenti solidali che devono essere continuamente ricordati e aggiornati per lo stato sociale/sussidiario e per il suo finanziamento. Fedeli alla: "marca solidarietà".

Proposta: la prefettura, il Comune, la Regione, la Curia, il terzo settore, l'Assolombarda, e fondazioni di origine bancaria creino un'agenzia operativa per fare da tramite competente fra le non profit e le agenzia pubblicitarie. Evviva gli spot della solidarietà.

(giorgio.fiorentini@sdabocconi.it)

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Libero 29/11/2000

PROCESSO AL CIOCCOLATO NON AI LIBRI SBAGLIATI

di AMEDEO NIGRA

Siamo proprio il Paese delle contraddizioni. Un produttore di cioccolatini che si permetta di fare un piccolo spot pubblicitario con qualche ambiguità, si trova di fronte a quattro potenziali giudici: il giurì di autodisciplina pubblicitaria, l'antitrust della concorrenza e infine il giudice civile e quello penale. Dall'altro lato, invece, un testo scolastico inadeguato, come un libro di storia sbagliato e, quindi, in grado di provocare danni gravi, non trova nessun intervento di fronte a sé. E prosegue libero nella sua navigazione, qualunque sia il suo contenuto.

Eppure, dovremmo decidere cosa vorremmo. Non passa giorno senza che l'opinione pubblica si lamenti per l'inefficienza della burocrazia. Ma - a dire il vero - da molti dei nostri interventi si direbbe che siamo proprio noi che vorremmo lasciare le cose, esattamente così come sono ora. Perché spesso rimaniamo inerti di fronte alle più vistose irregolarità. Il Presidente della regione Lazio Francesco Storace - ad esempio - aveva recentemente sollevato il problema dei testi scolastici incompleti e faziosi, prospettando l'idea di una commissione di esame. Ma è stato coperto di critiche, da politici e da commentatori che vorrebbero impedire anche un semplice controllo.

"Ai posteri l'ardua sentenza", scriveva Alessandro Manzoni, nella sua composizione "Il 5 Maggio", dedicata a Napoleone Buonaparte. Chi conosce bene l'autore dei Promessi Sposi, sa che le sue frasi non erano dette a caso. E così, la massima "ai posteri l'ardua sentenza", rappresenta e sintetizza molto bene una regola essenziale, secondo la quale la storia non deve essere scritta dai contemporanei. Deve essere narrata da chi viene dopo. Dai posteri, appunto. Una regola che sembrerebbe violata in continuazione in molti testi di storia, attualmente in uso nelle nostre scuole. Per di più, trattare delle Fosse dell'Ardeatine e non delle Foibe, oppure, affrontare le vittime del fascismo, senza trattare dei 100 milioni di morti e di vittime del comunismo (come sembrerebbe accadere di frequente nei nostri libri di testo) costituisce un errore storico-scientifico da rimuovere al più presto.

Bisognerebbe ricordare che - in fondo - noi abbiamo un ordinamento giuridico. In questo ambito, il libro di scuola è un prodotto. Come tale, deve rispettare precise regole tecniche (articolo 1176 c.c.), perché in caso contrario incorrerà nell'inadempimento (articolo 1218 c.c.). I rimedi sono quelli previsti dalla legge, in caso di prodotti difettosi. Qualsiasi genitore potrà agire in giudizio contro chi abbia scelto il testo "difettoso" e anche contro l'editore e il Ministro della Pubblica Istruzione, per chiedere l'eliminazione del testo stesso. Naturalmente, un'azione dovrà essere preceduta come minimo da una perizia predisposta da un consulente tecnico, in cui si individuino errori storici o squilibri negli spazi dedicati ad ogni argomento.

Ora, in base alla legislazione più recente, potranno agire in giudizio anche le associazioni di consumatori (legge 281 del 1998). E si potrà anche fare di più. Nei casi limite, se il prodotto in questione tratterà in modo inesatto o fazioso un dato argomento politico, si potranno esaminare e applicare anche le norme che vietano la pubblicità ingannevole (legge 74 del 1992), chiedendo al giudice civile di eliminare in via d'urgenza il libro eventualmente contestato.

Certo, invocando norme come queste, a carico della Pubblica Amministrazione, ci verremmo a trovare "ai confini del diritto". Ma non nascondiamoci la verità. Ora noi viviamo in una società che sta con i fucili puntati contro i privati, mentre il settore pubblico (e politico) prospera felice e beato, nella sua arretratezza, lontano da ogni male e al sicuro da ogni turbamento. Di conseguenza, se vorremo un po' di efficienza, purtroppo, non avremo scelta. La via da seguire consisterà nel sottoporre lo Stato, proprio a quel rigore, con cui i privati - ahimè - devono fare i conti tutti i giorni.

Amedeo Nigra

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Il Giornale del 1/6/2000

GLI STRILLI DELLE CICALE

Una situazione preoccupante e, per alcuni aspetti, drammatica che viene nascosta appena appena dal polverone euforico di una crescita che nel Duemila sarà doppia di quella dell'anno precedente. È questo il quadro dell'economia italiana descritto con rigore e puntualità da Antonio Fazio nella sua annuale relazione sull'economia italiana. Dopo dieci anni travagliati ci ritroviamo un Paese che ha ridotto di alcuni punti lo stock del debito pubblico soltanto vendendo la propria argenteria (150mila miliardi incassati dalle privatizzazioni) e ha risanato i conti pubblici aumentando in maniera abnorme la pressione fiscale, riducendo drammaticamente gli investimenti pubblici in formazione, innovazione, infrastrutture e toccando solo marginalmente la spesa corrente al netto degli interessi. Così facendo l'eredità che la sinistra ci lascia è un'Italia meno competitiva che cresce poco e male, con un divario Nord/Sud ritornato ai livelli del dopoguerra e con un'area della povertà che è giunta a toccare il 13 per cento delle famiglie italiane. Dinanzi a questa cruda realtà alcuni personaggi di questo governo fantasma hanno accusato il governatore di vedere solo il bicchiere mezzo vuoto, dimenticando la parte piena, e non si rendono conto, invece, che oltre 2 milioni di famiglie italiane rischiano di non avere neanche il bicchiere per bere. In questi anni i governi che si sono succeduti hanno pensato che tutto si potesse risolvere con la riduzione del deficit pubblico e con l'ingresso della lira nell'euro quale che fosse la via per arrivarci. La strada prescelta per risanare i conti pubblici è stata, così, la più perversa e ha lasciato un'economia gravemente segnata da una pesante riduzione di competitività con una struttura sociale degradata e con un orizzonte in cui le ombre sono di gran lunga maggiori delle luci. Ogni dato dell'ultimo quadriennio che si confronta vede l'Italia all'ultimo posto. Le esportazioni sono aumentate negli altri Paesi europei del 31 per cento mentre da noi di appena il 10 per cento a fronte di un aumento del commercio mondiale del 28 per cento. Il nostro prodotto interno lordo è cresciuto del 6 per cento, negli altri Paesi mediamente del nove. La produzione industriale italiana, nello stesso periodo, è cresciuta del 4,4 per cento, negli altri Paesi del 13 per cento. Il tasso di produttività del sistema è stato in Italia dello 0,7 per cento annuo, negli altri Paesi del 4 per cento. Il tasso di occupazione nell'area dell'euro è del 60 per cento, in Italia del 52 per cento e nel Mezzogiorno è addirittura del 41 per cento mentre ancora oggi siamo tra i due Paesi a più alto tasso di inflazione. Potremmo continuare ancora per molto, ma non troveremmo un solo dato che ci metta alla pari con l'andamento dell'economia degli altri Paesi dell'euro.
Antonio Fazio ancora una volta ha reso un servizio al Paese dal momento che non si è limitato a descrivere l'andamento economico di un solo anno ma ha, anche, allungato lo sguardo su di un congruo periodo (l'ultimo quadriennio) per far meglio capire le tendenze di fondo e l'inadeguatezza delle politiche fin qui seguite e che non hanno sciolto quasi per nulla i nodi strutturali che attanagliano e frenano la nostra economia.
L'abbandono in cui il Paese è stato lasciato in questi anni sul terreno della ricerca, dell'innovazione tecnologica, della formazione e delle infrastrutture è stato fatale perché ha eroso margini significativi di competitività determinando addirittura un andamento del costo unitario del lavoro superiore a quello del tasso di produttività nonostante i salari reali siano diminuiti. E i risultati sulla struttura sociale del Paese non si sono fatti attendere: meno esportazioni, minore crescita, meno occupati, più povertà. Un circuito perverso che molti pensano di aver interrotto solo perché per quest'anno e per quello prossimo si prevede una crescita poco al di sotto del 3 per cento.
Un errore madornale perché la forza inerziale del ciclo espansivo internazionale spinge in alto la crescita di tutti i Paesi, senza eccezione alcuna ma con una sola differenza peraltro non di poco conto. Ci sono, infatti, Paesi che utilizzano al meglio il ciclo economico positivo risolvendo definitivamente i problemi del debito pubblico, della competitività e della diffusione del benessere e altri che, come le sciagurate cicale della favola, lasciano passare il bel tempo accontentandosi del tiepido sole che la crescita internazionale gli garantisce. Per i risultati ricordati l'Italia è la più grande cicala tra i Paesi del Vecchio Continente.
Con la sua relazione Antonio Fazio ha mandato, però, anche un chiaro messaggio politico di non disponibilità ai tanti visitatori che a nome del centrosinistra lo hanno sollecitato in questi ultimi mesi a scendere in campo.
Fazio è uno dei migliori governatori che l'Italia abbia avuto e la sua onestà intellettuale gli suggerisce di continuare a servire il Paese sull'autorevole sponda della Banca centrale. Fazio sa che la politica è altra cosa e questo suo messaggio è un'inversione di tendenza rispetto alla non felice tradizione che si era andata affermando ultimamente nella Banca d'Italia. Anche di questo il Paese dovrà essergli grato e la sua decisione lascia la maggioranza parlamentare nuda con in braccio un governo nato già morto e, per sua stessa ammissione, senza un nuovo leader capace di proporsi alle prossime elezioni politiche. E forse sta tutta qui la causa prima della lenta decadenza dell'economia italiana.

Geronimo

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Il Giorno del 4/3/2000

IL BOIA PINOCHET E L’ANGELICO FIDEL

di VITTORIO  FELTRI

Sono originali i quotidiani italiani. Sfogliarli per credere. Raccontano le schifezze compiute dal regime di Augusto Pinochet e ci offrono un ritratto allucinante di questo boia instancabile. L'Inghilterra ha valutato che il generale è troppo vecchio e malandato per essere instradato in Spagna, dove una Corte assetata di giustizia (o di vendetta, è la stessa cosa certe volte) era pronta a farlo a pezzi, metaforicamente s'intende, dato che il fascista Franco è morto e il paese ormai è democratico. E l'opinione pubblica di sinistra s'è indignata: Dio stramaledica gli inglesi che hanno riconosciuto al bastardo di Santiago diritti umani immeritati. Immagino le proteste nel prossimi giorni, le manifestazioni, i cortei. Ho letto cronache, rievocazioni, ricostruzioni di eventi lontani scritte con una partecipazione davvero Commovente. Viene voglia di strangolarlo, il sanguinario dittatore. Si elencano le atrocità commesse su ordine suo: gente fucilata allo stadio, torture, elettrodi sui capezzoli e nella vagina, scariche elettriche nei testicoli, ossa rotte, lingue bruciate. Una contabilità redatta con puntigliosa meticolosità davanti alla quale è impossibile non ribellarsi.
Peccato che le articolesse democratiche manchino di un elemento fondamentale per comprendere: che clima c'era in quegli anni sessanta a Santiago?
Allende si era impossessato del potere e stava trascinando il Cile nell’abisso del socialismo reale. Crisi profonda. Non c'era neppure da mangiare. Poi i camionisti organizzarono lo storico sciopero e le donne scesero in piazza agitando i pentolini vuoti. Il colpo di Stato fu sollecitato dalla base, si impose con il suo corollario di violenze e prevaricazioni. S’è mai visto un golpe alla camomilla? Quello cileno non fece eccezione, stragi di oppositori, desaparecidos. Ma lo scopo fu raggiunto: salvare il Paese dal comunismo. Fra due mali, fu scelto il minore- Perché non ricordarlo? Non è politicamente corretto. E perché non ricordare che un quarto di secolo più tardi, con il benessere economico Pinochet ha ridato la democrazia (elezioni libere, pluralismo di partiti) ai compatrioti? E anche questo non è politicamente corretto. Se qualcuno osa dire che Fidel Castro ha fatto di peggio e continua a farlo, che da quarant'anni affama il suo popolo, lo umilia, lo terrorizza massacrando gli oppositori, viene bollato: sporco reazionario. Un confronto fra i due tiranni mette in evidenza che il cubano è un criminale di gran lunga più efferato, ma è un confronto vietato dal bon ton progressista. Non vi azzardate a proporlo, fareste la figura dei cafoni. Nella felice isola dei sigari e della prostituzione preferita dagli italiani, un lavoratore a tempo pieno percepisce uno stipendio di 20.000 lire al mese.
La carne se la può permettere una volta ogni quindici giorni, per il resto riso bollito e via andare. Non è consentito pescare: il pesce è dello stato, se lo tiri fuori dall'acqua sei obbligato a consegnarlo alle autorità. La gallina e l’uovo sono statali il pollo te lo puoi tenere. Migliaia di cubani sono morti e crepano annegati nel tentativo di emigrare, di sfuggire alle porcherie di un regime corrotto e miserando. Le galere sono strapiene. Però è tutta roba di sinistra e va capita, a Bertinotti addirittura piace. Medaglie a Castro, piombo a Pinochet. Diritti umani per tutti, stragisti, mafiosi, tagliagole tranne che per il generale cileno. L'Inghilterra che glieli ha concessi ha sbagliato. Doppiopesisti di tutto il mondo unitevi.

Vittorio Feltri

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Il Giornale del 2/3/2000

BILANCI COSI’ SONO STATI FATTI SPARIRE 350MILA POSTI DI LAVORO

di GERONIMO

I conti economici nazionali sembrano essere di buon livello, come ci informa l’Istat, e Massimo D'Alema e Giuliano Amato non hanno resistito alla tentazione di convocare una conferenza stampa definendo i risultati della propria azione di governo straordinariamente positivi. I numeri del presunto successo sono essenzialmente due: a) un indebitamento delle pubbliche amministrazioni passato dal 2,8% sul Pil all'1,9%; b)un'occupazione migliorata di 200mila unità rispetto all'anno precedente. Questo è quel che appare, ma la realtà è ben diversa. L'economia reale è infatti peggiorata.
L’aumento del prodotto interno lordo si è attestato sull'1,4%, ancora un po’ meno, cioè, dello striminzito risultato del 98(+1,5%) che ci colloca per il quarto anno consecutivo all'ultimo posto tra i Paesi dell' euro. Ciò che è più grave, però, è che perdiamo competitività internazionale tanto che le nostre esportazioni sono diminuite dello 0,4% in quantità e dello 0,8% in valore in un anno in cui la ripresa dell’economia mondiale è stata pressoché diffusa. Nonostante questo peggioramento dell'economia reale, il tasso di inflazione medio (1,7%) è aumentato rispetto alle previsioni che parlavano, invece, di aumento dei prezzi al consumo dell'1,5% In verità l'aumento dei prezzi al consumo delle famiglie è aumentato ancora di più raggiungendo il 2,2% come si evince dagli stessi dati comunicati dall'lstat. Non vorrei apparire bastian contrario, ma anche il buon risultato dell'indebitamento delle pubbliche amministrazioni sceso di poco al disotto del 2% non è il frutto di un andamento virtuoso dell'equilibrio strutturale dei conti pubblici.
Esso, infatti, non è determinato da una riduzione della spesa pubblica ma solo da un ulteriore aumento della pressione fiscale ancora più grave in un anno di bassa crescita e da una transitoria riduzione della spesa per interessi (-1,2%, pari cioè a ben 22mila miliardi) legata andamento al ribasso dei tassi d'interesse sui mercati internazionali. Ma c'è un dato che taglia la testa al toro e la dice lunga sulla vitalità della nostra economia, ed è quello dell’occupazione. Il presidente del Consiglio esulta per un aumento dell'occupazione che, nel corso del 1999, è stato di circa 200mila unità. Quel che dimentica, però, è che negli ultimi sette anni la sinistra è stata sempre al potere, sia sul piano nazionale che in gran parte delle regioni, e gli occupati che oggi sono 23 milioni e 135mila, alla fine del'92 erano, sempre secondo i dati Istat, 23 milioni 457mila. Dopo sette anni di governo, insomma, mancano all'appello 350mila posti di lavoro che diventano 550mila se si considerano i dati al 31 dicembre 1991. Sono questi i risultati dei decennio postcomunista e se, dopo aver toccato il fondo, si risale un po' non per questo si giustifica quel trionfalismo messo in mostra da Massimo D'Alema e dal suoi ministri finanziari.
Nonostante le assicurazioni contrarie, anche quest'anno, infatti, saremo tra i Paesi europei che avranno più inflazione e minore crescita. Sul versante dei prezzi al consumo, infatti, stanno facendo peggio di noi solo Spagna, Irlanda e Lussemburgo che hanno, però, tassi di crescita superiori al 3,5% mentre Francia e Germania, i Paesi con cui più ci confrontiamo, hanno un tasso di inflazione che è un terzo dei nostro e un tasso di crescita che in Francia è stato il doppio del nostro (2,7%) e in Germania ha raggiunto il 2%. Nella stagione della globalizzazione economica e della moneta unica europea diventa impossibile per un Paese andare totalmente in controtendenza all'area di appartenenza perché finisce con l'avere una rete di protezione che glielo impedisce, ma all'interno di questa rete c'è chi fa meglio, utilizzando tutte le opportunità del ciclo economico, e chi fa peggio, perdendo occasioni e sciupando potenzialità. Spiace dirlo, ma l'Italia continua a essere fra questi ultimi.

Geronimo

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Cattolici e società

CHE COS'E' LA LIBERTA' PER LA CHIESA
di CAMILLO RUINI

Caro direttore, alcuni eventi promossi dalla Chiesa italiana in questi ultimi mesi, come l'assemblea nazionale della scuola cattolica e la settimana sociale dei cattolici italiani, hanno avuto grande risonanza sui mezzi di comunicazione ed hanno rilanciato il dibattito sul ruolo pubblico che la Chiesa svolge in Italia. Mi sembra opportuno fornire in proposito qualche chiarimento, che permetta di vedere meglio come la Chiesa stessa concepisca e cerchi di attuare il proprio compito. Vorrei sottolineare anzitutto una cosa, abbastanza ovvia, ma che spesso rischia di essere persa di vista: la prima preoccupazione della Chiesa italiana ­ dalle singole parrocchie fino alla Conferenza episcopale - è di ordine religioso e riguarda in concreto il mantenimento e la diffusione della fede cristiana, la sua trasmissione da una generazione all'altra. Questo compito, che non è mai stato facile, deve fare i conti oggi con una serie di problemi che lo rendono straordinariamente impegnativo: e, storicamente parlando, .di esito incerto: basti accennare alla tendenza, sempre più pervasiva, ad interpretare non solo i fenomeni fisici ma anche i nostri pensieri, scelte e sentimenti in una chiave esclusivamente empirica, che lascia ben poco spazio per un rapporto personale e vissuto con Dio. A questo livello, che per lei è quello decisivo, la Chiesa italiana, ormai da qualche decennio, è pienamente consapevole di non poter e non dover contare su aiuti impropri. dello Stato o comunque di forme di pressione sociale. Accetta dunque il rischio, della libertà, avendo anzitutto fiducia nella presenza e nell'opera misteriosa e misericordiosa di Dio. Va aggiunto che in Italia non sono certo poche le persone e le comunità che danno una significativa testimonianza cristiana.

LA LIBERTA'
Anche dal punto di vista di ciò che è storicamente verificabile, la partita del cristianesimo rimane dunque difficile ma ampiamente aperta. Il terreno sul quale la Chiesa diventa più di frequente uno dei protagonisti del dibattito pubblico è quello etico. E ciò non avviene per caso. Da una parte, infatti, l'etica non è per il cristianesimo - come forse può dirsi per alcune altre religioni - una questione secondaria o periferica: essa fa parte invece della sostanza della fede cristiana ed esprime nel concreto l'interpretazione cristiana dell'esistenza, che ruota intorno al comandamento centrale dell'amore del prossimo. Dall'altra parte, nonostante la tendenza diffusa a considerare i problemi etici come ambito esclusivo della libera scelta delle singole persone, in realtà varie tematiche etiche diventano sempre più oggetto di confronto pubblico e alla fine di decisioni legislative e politiche: spingono in questa direzione sia il rapido evolversi dei modi di vivere e dei comportamenti sia il progresso scientifico e tecnologico, che apre crescenti spazi di intervento sulle nostre strutture biologiche e psico-fisiche. Anche la Chiesa, pertanto, non può limitare il proprio impegno etico alla proposta dei valori e alla formazione delle coscienze, che pure rimangono fondamentali e prioritarie. Deve esprimersi anche riguardo a quelle scelte politiche e legislative, che hanno una chiara rilevanza etica, e non può che farlo in conformità all'interpretazione cristiana dell'esistenza. Negli ultimi anni, come Conferenza episcopale, abbiamo operato in questo senso cercando di evitare con cura ogni coinvolgimento partitico, sebbene sia impossibile, e alla fine un poco ipocrita, nascondere le consonanze o dissonanze che di volta involta si possono verificare con le scelte delle varie forze politiche. Non è questo, comunque, il problema più difficile. La contestazione di maggior rilievo che viene mossa alla Chiesa per i suoi interventi nel dibattito sui temi etici è piuttosto quella che le rimprovera di voler coartare o ridurre la libertà di scelta delle persone, cercando di imporre per legge la propria particolare concezione etica. Al di là del suo merito intrinseco, questa contestazione va presa molto sul serio proprio dal punto di vista della fede cristiana, perché tocca il rapporto tra la fede stessa e lo sviluppo della libertà. L'affermazione della libertà è infatti parte essenziale del cristianesimo, a cominciare dal modo di concepire Dio, come essere assoluto ma al contempo supremamente libero, che crea l'universo e l'uomo con una scelta di amore gratuito e di pura libertà. Nella medesima linea, è radicale nel cristianesimo l'affermazione della nostra libertà e responsabilità, senza le quali non si potrebbe comprendere, anzitutto, il senso della croce di Cristo, che presuppone la serietà delle colpe di cui si è caricata l'intera umanità., ma vere colpe non possono esistere senza responsabilità e libertà. Non è casuale, dunque, che sul piano del pensiero filosofico come su quello della vita sociale e delle istituzioni politiche, la libertà si sia sviluppata principalmente tra i popoli di religione e tradizione cristiana. Cosa dire, allora, delle posizioni assunte dalla Chiesa in campo etico? Per quanto ciò possa apparire sorprendente e paradossale, l'intenzione di fondo che sta alla base di tali posizioni è quella di promuovere non solo un migliore stile di vita ma anche una più grande e più autentica libertà. In concreto, e schematizzando al massimo, va detto anzitutto che l'obiettivo non è quello di restringere lo spazio delle scelte personali, imponendo per legge civile le norme della morale cattolica. Si tratta, invece, o semplicemente di tutelare un bene e un diritto umano primario e non rinunciabile, come avviene ad esempio nella difesa del diritto alla vita di ogni essere umano, o di promuovere l'esercizio concreto di determinate libertà, come quella del lavoro o dell'educazione,- o anche di salvaguardare la specificità di istituti, come la famiglia, che svolgono un ruolo fondamentale proprio per la formazione della persona e lo sviluppo della sua libertà, che ha bisogno, per crescere e consolidarsi, di un contesto relazionale ed affettivo favorevole. Non pretendo certo che queste considerazioni risultino per tutti attendibili e convincenti, vorrei solo che fossero accolte come espressione sincera del punto di vista e degli intenti della Chiesa in Italia.
Cardinale Camillo Ruini
Vicario di Roma presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana)

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FINE DEL MONOPOLIO ROSSO
Il Giornale - 25 Ottobre 1999

di Vittorio Mathieu

La disinformazione non consiste soltanto nel propalare notizie false o nel tacere circostanze scottanti: consiste anche nell'impedire agli altri di dire ciò che sanno. Quando ero al consiglio esecutivo dell'Unesco, ho assistito ad un tentativo dell'U.R.S.S., tipico in questo senso. Era ormai evidente l'impossibilità di impedire la trasmissione, con nuove tecniche, di informazioni a tutto il pianeta. Allora l'U.R.S.S. pensò di ottenere ciò per via diplomatica. Promosse una convenzione per vietare la diffusione di notizie contrarie alla pace e all'intesa fra i popoli (ossia: sgradite all'Unione Sovietica). In questo modo i governi stessi, dall'interno, avrebbero dovuto tappare la bocca ai mezzi di comunicazione di massa. I governi occidentali obiettarono che non disponevano di una censura, e i Paesi terzi non si allinearono, perché capirono che non era loro interesse. Il "nuovo ordine mondiale dell'informazione finì così, ma non finì, particolarmente in Italia, l'abitudine dei comunisti ad ottenere il silenzio con ricatti minacce e pressioni "morali".
Chi era formalmente al potere evitava troppo spesso, per quieto vivere, di dar fastidio al comunisti. Per questo il "polverone" sollevato dall'affare Mitrokhin è una novità: non perché non abbia detto cose che tutti sapevano (a parte i nomi precisi), ma perché le ha dette in un modo che nessuno è stato in grado di silenziare. A tutti era noto che in Italia c'erano spie del Kgb, come della Cia (forse anche della Repubblica di San Marino). A tutti era noto che dall'Urss arrivavano soldi al Pci; e ancora più dalle percentuali sull'import-export. Anzi, io me ne rallegravo, perché era d'aiuto alla nostra bilancia commerciale. La stranezza, semmai, è che il Kgb pagasse come informatori tante persone che l'avrebbero fatto gratis. Forse serviva ai suoi agenti per farci la cresta. Tutti sapevano, infine, che in Cecoslovacchia c'erano centri per l'addestramento dei terroristi e che Mosca forniva documenti falsi a criminali italiani.
La novità sta nel fatto che uno scandalo, sollevato a tutta prima da un giornale (questo), abbia obbligato tutti gli altri a occuparsene, anche i più prudenti , e le autorità a fornire notizie, e il governo a nominare una commissione d'inchiesta. Altro, infatti, è che una cosa sia nota, altro che sia riconosciuta ufficialmente e resa almeno (teoricamente) operativa. Altro è proclamare verità nel deserto, altro obbligare che - chi se ne sente toccato a rispondere: magari ostentando ironia o indifferenza ma, appunto, ostentandola: Troppo spesso le Sinistre potevano permettersi politiche perverse perché chi disturbava il manovratore era ridotto al silenzio, grazie a un'egemonia culturale che induceva molti, anche non comunisti, a credere a calunnie, a non credere a verità solari, ad accettare persecuzioni discriminatorie (che non cessano di essere persecutorie quando usino mezzi legali), a respingere come antidemocratiche proposte ragionevoli: insomma, a tener conto di una verità sola, precostituita.
L'affare-Mitrokhin è benvenuto, non perché serva a cambiare il passato e neppure, immediatamente, il presente (benché abbia già aggravato i contrasti nella maggioranza),bensì perché segna la fine di un'epoca di omertà. E' vero che il comuni-smo non è più un pericolo mortale, perché ciò che lo rendeva tale era la potenza dell'Unione Sovietica, che non c'è più; ma, se questo è un passato, non è un passato l'aspirazione degli ex comunisti al monopolio di fatto dell'informazione e della cultura, mirante a ottenere che tutto ciò che non va loro a genio sia nascosto, come la polvere sotto un tappeto. Per questo è naturale che lamentino il "polverone". Ora l'epoca in cui si poteva indurre una maggioranza di italiani a non tener conto di ciò che diceva una certa parte, "politicamente scorretta", in cui il comunismo, apparentemente monolitico, aveva la facoltà d'indicare quale fosse questa parte magari cambiando idea secondo l'opportunità, è un'epoca che sta tramontando. La rabbia dei comunisti (o degli ex) non è dovuta al contenuto del dossier, è dovuta al fatto stesso che se ne parli.
Vittorio Mathieu

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L'ITALIA IN VENDITA
IL GIORNALE del 20 Agosto 1999
di Geronimo

Tutti scherzano ricordando gli anni Cinquanta, di Gregory Peck e la Audrey Hepburn in Vacanze romane, gli anni della giovinezza e delle speranze dopo il disastro della guerra. Insomma, quando se ne parla, la leggendaria Vespa stimola un amarcord di massa ed il trasferimento della sua proprietà al fondo americano Texas Pacific Group altro non produce che nostalgia di un tempo lontano con commenti simpatici ed effimeri di Piero Chiambretti, Renzo Arbore, Vittorio Gassman e di tanti altri uomini e donne che vissero parte della propria giovinezza scorrazzando per le città su quel seducente mezzo a due ruote. Eppure nessuno si accorge che, così facendo, si manca di rispetto alla storia della Vespa, a quella dei suoi inventori e a quella della famiglia Piaggio che seppe convertire un'industria bellica che produceva aerei in un' azìenda moderna e in linea con il nuovo sviluppo della motorizzazione di massa La vendita della Piaggio agli americani, infatti, è l'ultima conferma di un drammatico processo di spoliazione della nostra economia, che va avanti da anni e che sta trasformando l'Italia in una colonia delle economie forti europee, americane o asiatiche.

Dal 1992 ad oggi sono passati nelle mani di multinazionali straniere interi settori come, per esempio, la farmaceutica e l'alimentare. Farmitalia e Carlo Erba, le due case farmaceutiche -più prestigiose e conosciute sono state acquistate dalla svedese Pharmacia Unilever, Nestlé e Danone, le più grandi multinazionali alimentari, hanno fatto shopping di marchi di qualità come Motta, alemagna, Buitoni, Galbani, Invernizzi e Ferrarelle, mentre tedeschi e francesi governano al momento già alcuni grandi gestori di telefonia mobile come Omnitel e Wind (Telecom è stata. salvata appena in tempo dal coraggio di Colaninno, Gnutti, Marco De Benedetti e del sistema di Mediobanca contro il tentativo di Deutsche Telekom). La General Electric ha rilevato il Nuovo Pignone dall'Eni e lo stesso cane a sei a zampe è a rischio perché oltre il 60 per cento del suo capitale è sul mercato senza che il sistema finanziario italiano sia in condizioni di proteggerlo. Società di navigazione come la Costa Crociere, l'Italia Navigazione e la Tirrenia sono state prese d'assalto da americani, inglesi ed asiatici per non parlare di quei marchi che erano nel mondo l'immagine stessa del made in Italy come la Martini & Rossi, la Cinzano, la Gucci e la Lamborghini passati in questi anni nelle mani di americani, inglesi e tedeschi. E da qualche tempo anche nel settore del credito, il più protetto e il più resistente alle infiltrazioni straniere grazie a quel cane da guardia che risponde al nome di Antonio Fazio, sono scese in massa le grandi banche europee. Dai francesi del Crédit Agricole ai tedeschi della Deutsche e della Commerz Bank, dagli spagnoli del Santander e del Bilbao per finire agli olandesi della Abn-Amro, l'influenza delle grandi banche europee sul nostro sistema creditizio cresce ogni giorno di più.

Da anni, insomma, l'Italia è in vendita sul mercato internazionale senza che il nostro sistema sia in condizioni di garantire alcuna reciprocità. Per trovare un esempio di una significativa acquisizione italiana all'estero, infatti, bisogna scomodare la Luxottica di Leonardo Del Vecchio sbarcata in America o la Marzotto che acquistò la tedesca Hugo Boss. Ma, come si sa, qualche rondine non fa primavera. Per il resto i tentativi, degli Agnelli, dei De Benedetti, dei Pirelli, tanto per citare i maggiori, si sono tutti infranti contro il muro delle reazioni del. Sistema economico e politico di quel Paesi come la Francia e a Germania che non hanno paura di difendere quote di sovranità nazionale nell'economia globalizzata. Ben presto sarà la Fiat, grande emblema. nazionale, ad essere comprata perché se sino ad oggi si è difesa, è ormai rimasta sola in un settore ed in un' epoca che non tollerano nani aziendali.

Di chi, allora, la colpa di questo disastro del nostro sistema produttivo che trascina con sé settori centrali per il futuro del Paese come la ricerca applicata e che si sta relegando nel ruolo di colonia di rango, dove il rango è solo il nostro, livello di consumi? La responsabilità non è di un capitalismo familiare infingardo ma è al contrario della politica miope di una Sinistra che in sette anni, da quando cioè è iniziato il processo di globalizzazione economica, non è stata capace di organizzare quegli investitori istituzionali come i fondi pensione che potevano raccogliere il grande risparmio degli italiani e desinarlo all'impiego produttivo garantendo, ad un tempo, il rafforzamento del mercato dei capitali e la sovranità italiana di molti assets produttivi nazionali ed internazionali. La nostra, naturalmente, non è, una critica alla globalizzazione e ai suoi meccanismi e men che meno è intrisa di anacronistici rigurgiti autarchici. La nostra critica è solo piena di rabbia per vedere inutilizzati da una politica balbettante i 300mila miliardi e passa di risparmi annui degli italiani che prendono vie diverse in ordine sparso. Anzi, a pensarci bene, il grande flusso di risparmio privato degli italiani è servito, e servirà sempre di più, a finanziare le grandi acquisizioni che le multinazionali straniere stanno facendo da tempo nel nostro Paese. E mai come questa volta non c'entra per nulla il destino cinico e baro.

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D'Alemacord
IL FOGLIO del 26 giugno 1999 pag.1

La riforma delle pensioni era un "massacro sociale". O no?
L'intervista che l'attuale premier rilasciò contro il governo Berlusconi

Illustre e coraggioso presidente del Consiglio Massimo D'Alema, con grande coraggio lei, di concerto con il neoministro dell'Economia Giuliano Amato, sta conducendo una neobattaglia per la riforma delle pensioni e il ridimensionamento delle pensioni d'anzianità. Bene, come sempre. Lontano dall'Italia, dalla coraggiosa Buenos Aires, lei ha anche sussurrato davanti ai taccuini dei nostri coraggiosi giornalisti di ritenersi "sconcertato" e finalmente "amareggiato" per l'ottusa incomprensione dei sindacati alle sue proposte. Come fanno, i sindacati, a non capire le sue proposte? Quale irrimediabile ottusità fa velo alle menti dei sindacalisti che si ostinano a non essere illuminati dal Verbo del coraggioso premier?

Si capiscono il suo sconcerto e la sua amarezza. Ma per lenire l'uno e l'altra ci permettiamo di sottoporle i passaggi cruciali di una memorabile intervista che proprio lei, in qualità di leader del Pds, rilasciò nell'ottobre del 1994 ad Alberto Statera, allora inviato ed editorialista di punta della Stampa, allorché l'allora capo del governo Silvio Berlusconi presentò assieme al ministro del Tesoro, Lamberto Dini, un piano per le pensioni simile al suo attuale e parimenti motivo di intemperanze, davvero "sconcertanti", e cazzutissime mobilitazioni sindacali. Certamente avrò modo di apprezzare quanto il tempo l'abbia positivamente trasformata e maturata. Ecco infatti cosa ebbe a dire in quell'occasione, galvanizzato dall'opposizione sociale montante contro il governo di Silvio Berlusconi: "Cosa avrebbe dovuto fare il sindacato? Subire senza battere ciglio un massacro? Perché di questo si tratta, di un autentico massacro sociale, derivante da una visione odiosamente classista: altro non è tagliare in un anno diecimila miliardi di pensioni, in un paese dove si evadono 150mila miliardi di tasse e 80 mila di contributi".

Si rende conto, illustre presidente, quanto sconcerto e quanta amarezza provocarono nell'allora inquilino di Palazzo Chigi argomentazioni così restie a comprendere il coraggioso piano del governo Berlusconi? Ma andiamo avanti: "Non scioperare significherebbe vivere in un paese totalitario, di fronte al criterio aberrante applicato: il rischio di una crisi finanziaria e la necessità di interventi immediati non vengono affrontati ripartendo i sacrifici, ma massacrando i pensionati". Sembra Fausto Bertinotti, non è vero? E invece era la prosa dell'ancora non sconcertato Massimo D'Alema quando al governo c'erano gli altri, c'era l'odiato Berlusconi. Ma andiamo avanti: "Avrebbero dovuto affrontare l'emergenza con più serie operazioni sul lato dell'entrata, con un'addizionale sulle imposte che ripartisse i sacrifici tra tutte le categorie. E invece si preme sugli strati popolari". Le piace l'accenno all'addizionale sulle imposte? Ma andiamo avanti: "Non si può chiedere al sindacato di non fare sciopero generale, significherebbe invitarlo all'Aventino e per di più fargli perdere il governo dei conflitti sociali, che dilagherebbero". E per finire: "Berlusconi ha deciso di dare un colpo ai sindacati e ai ceti popolari e un segnale agli interessi forti. Non so se l'abbia deciso a casa da Agnelli o altrove". Le piace l'accenno a casa Agnelli? E' servito tutto ciò a lenirle lo sconcerto e l'amarezza? Confidiamo di sì (liberi da addizionali sulle imposte).

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Lacrime e Sanità.
Da IL GIORNALE del 17 giugno 1999

Riforma stoppata, alla Bindi saltano i nervi. Rosy litiga in Consiglio dei ministri col compagno di partito Zecchino e D'Alema è costretto a rinviare tutto.
di Sabrina Cottone

   Lite popolare, con peperoncino socialista, in Consiglio dei ministri. E Rosy Bindi, durante la riunione ha davvero perso il controllo al punto che qualcuno l'ha vista trattenere a stento le lacrime. Lo scontro sulla riforma della sanità ha avuto accenti durissimi, aggravati dalla lotta intestina che si. sta aprendo dentro il Ppi all'indomani delle elezioni europee. Morale? Massimo D'Alema deve rinviare il via libera alla riforma della sanità al prossimo Consiglio dei ministri, con tempi ormai strettissimi, visto che il decreto ministeriale va pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale entro lunedì prossimo.

   Emerge in maniera lampante la debolezza di Piazza del Gesù dopo il 13 giugno e ringalluzziscono gli avversari storici del provvedimento. Dai sindacati alle Regioni a molti ministri. La Bindi adesso comincia a temere la "sua" Waterloo. Oggi nuovo vertice di ministri. E' stato durissimo lo scambio di battute tra la Bindi e il collega popolare Ortensio Zecchino, ministro dell'Università. Anche se a dare fuoco alle polveri è stato il ministro socialista della Funzione pubblica Angelo Piazza. Piazza contesta la possibilità offerta dalla riforma agli infermieri di diventare, anch'essi dirigenti delle strutture ospedaliere. Norma messa in discussioni pure dai medici. Per il ministro della Funzione pubblica questa parte del provvedimento sarebbe addirittura incostituzionale. Con Zecchino invece, il braccio di ferro è nato sull'età pensionabile e sui rapporti tra ministero della Sanità e dell'Università.

   Alle richieste di Zecchino per una modifica di alcuni articoli, la Bindi ha risposto, con il massimo della freddezza: "Sono completamente indisponibile ad accogliere le tue proposte". La titolare della Sanità ha cominciato a innervosirsi e ad attaccare anche altri colleghi. "Sono sorpresa", ha esclamatola Bindi. Il ruolo unico della dirigenza medica infatti aveva avuto inizialmente il via libera da tutti i ministri interessati, compreso quello della Funzione pubblica. La Bindi ha provato a ricordare che la grande maggioranza dei sindacati di categoria ha, dato il via libera all'impostazione sul ruolo unico. A sostegno della posizione del ministro della Sanità è intervenuta Livia Turco. Ma Dini ha appoggiato Piazza. Alla fine, quindi, si è assistito a un vero braccio di ferro durato quasi tre ore un dibattito a tratti imbarazzante e per la seconda volta in Consiglio dei ministri la riforma è stata stoppata, da veti e contro-veti.

   L'ennesimo rinvio ha fatto andare su tutte le furie la Bindi che ha lasciato la riunione in anticipo. Osservazioni, per quanto riguarda il capitolo spese, sarebbero venute anche dal ministro del Tesoro. Amato ha fatto dei rilievi su eventuali aumenti di copertura finanziaria per garantire i cosiddetti livelli uniformi di assistenza: "Meglio essere prudenti fino a quando non saranno definite tutte le cifre del. Prossimo Dpef". Piazza ha insistito segnando con la matita blu gli errori della riforma: "Centralismo, burocrazia, discriminazione tra privati ruolo reale delle Usl e controlli su di esse". Zecchino ha cercato di risolvere a suo favore il conflitto che nasce tra il suo dicastero E quello della Bindi sui corsi di formazione professionale. E le Regioni di fronte al rinvio rilanciano il loro parere sfavorevole alla riforma. In ogni caso, il premier, preso atto della situazione ha deciso lo slittamento dell'esame del decreto legislativo a venerdÏ. Dice Antonio Tomassini, responsabile Sanità di Forza Italia: "II rinvio è un'alchimia da Prima Repubblica".

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Dieci milioni di lavoratori irregolari
Una popolazione "fuori legge" dovrebbe far riflettere chi governa
di AMEDEO NIGRA

   In Italia ci sono dieci milioni di lavoratori in nero. E' questo il dato che emerge dalle più recenti ricerche del CNEL, il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro. Senonchè, dieci milioni di lavoratori irregolari sono un intero popolo. Questo vuol dire che i lavoratori "in nero" - visti nel loro rapporto con il potere costruito - sono un po' come i Cristiani ai tempi dell'imperatore Nerone. Vivono nelle catacombe. Seguono di nascosto una loro "religione fiscale" fuori legge. In attesa che giunga un nuovo Costantino, a liberarli dalla loro oppressione.

   Nel frattempo, chi governa dovrebbe riflettere sui due grandi fenomeni del nostro tempo. L'impresa ha trasformato il nostro secolo. E ha vinto nel mondo, per il semplice fatto che non si è proposta di schiacciare il suo antagonista ossia il consumatore. Anzi. L'ha valorizzato. L'ha fatto stare sempre meglio. E ha elevato il tenore di vita dei suoi collaboratori, operai e impiegati. In una parola ha vinto "con" tutti gli altri. E in questo "fenomeno americano" (che si chiama anche "marketing") si ritrova la grande lezione che dovrebbe essere colta da chi governa. Comprendere gli altri e "seguirli", conviene sempre.

   Il comunismo è il grande sconfitto di questo secolo. E lo è stato, per il decisivo motivo che ha preferito la soluzione opposta a quella dell'impresa. Ha cercato di "schiacciare" i suoi avversari, la borghesia, i capitalisti, i lavoratori autonomi. Creandosi mille avversari. E - soprattutto - uccidendo ogni forma di cooperazione. Il contratto sociale è per sua natura bilaterale. Eliminare la controparte (con la dittatura del proletariato) significa fallire in partenza. Perché l'accordo non è più tale. E senza l'accordo viene meno la forza esplosiva della cooperazione.

   L'Europa va male. E la ragione del suo fallimento va ricercata nel "seme del comunismo" che Ë rimasto nella sinistra europea. Certo, la parola "comunismo" non si usa più. Ma in tutta Europa, si privilegia la soluzione di forza. Come avviene per la burocrazia, il fisco e la esagerata ingerenza sindacale. I risultati sono "i dieci milioni di lavoratori in nero". Quasi la metà della popolazione attiva.

   Il dato è allarmante. Perché significa che la gente non segue più il potere legislativo. Più esattamente, questo dato ci dice che le leggi assomigliano sempre più a grandi sepolcri imbiancati. Principi bellissimi all'esterno. Ma tutto cambia al loro interno. Dove c'è l'esatto opposto.

   Quanto tempo durerà questa situazione? Come sarà il 2000? Avremo un partito di Rifondazione Comunista che ci chiederà le 30 ore settimanali per i guidatori delle astronavi? E avremo anche un sindacato che ci chiederà le pensioni al compimento del sessantesimo compleanno, con una vita media di 110 anni? Forse sarà così. Tutto è possibile. Ma con un minimo di immaginazione si può intuire che, nel 2000, lo Stato assomiglierà sempre di più ad una grande impresa. Con un fisco e con una pubblica amministrazione, pronti a farsi in quattro per accontentare il cittadino. Con il ministro delle tasse pronto a dare premi, buoni sconto e facilitazioni economiche, in proporzione ai versamenti fatti. E con le persone felici di pagare le tasse, per poter ricevere quei premi e proprio per gratitudine verso il fisco.

   E' un sogno impossibile? Forse si. Forse lo è, con questa politica classica, lontana dalla gente. Ma non bisognerebbe accantonare il sogno. Piuttosto, bisognerebbe accontentare questa politica. O, almeno, tentare di farlo.

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Finalmente la Chiesa Cattolica ricorre alla "pubblicità sociale".
Da IL GIORNALE del 2 giugno 1999

Spot in Tv per convertire i giovani alla fede
di ANDREA TORNIELLI

   Beato sia lo spot. Nella strategia massmediatica con cui la Chiesa si prepara a vivere le sfide dei prossimo millennio ci sarà un posto anche per vere e proprie campagne pubblicitarie: lo afferma nero su bianco un nuovo documento, preparato dal Pontificio consiglio per la cultura. Nel testo c'è infatti un diretto suggerimento alle diocesi affinché organizzino «Vere e proprie campagne pubblicitarie e persino spot, per mettere in luce valori cristiani essenziali a una cultura veramente umana». La Chiesa non è nuova a questo tipo di esperienza: basta ricordare la fortunata campagna di spot voluta dalla CEI in favore dell'otto per mille - unico esempio di pubblicità firmata dalla Chiesa Italiana allo scopo di autofinanziarsi e finanziare le sue opere caritative- o il recente uso dell'immagine del Papa per pubblicizzare alcuni prodotti (dalla Pepsi-Cola alle patatine fritte), che è servito a pagare in parte i costi della visita di Giovanni Paolo Il a Città del Messico lo scorso gennaio. Ma un invito così esplicito da parte del Vaticano ai vescovi costituisce una novità. Intanto si riaccende il dibattito sull'uso della pillola contraccettiva. Secondo il direttore del Messaggero di Sant'Antonio, padre Luciano Segafreddo, che ha risposto alla lettera di una lettrice, può essere «moralmente lecito» se i genitori giudicano «con argomenti certi di non poter avere altri figli».
   Beato sia lo spot. Nella strategia massmediatica con cui la Chiesa si prepara a vivere le sfide dei prossimo millennio ci sarà un posto anche per vere e proprie campagne pubblicitarie: lo afferma nero su bianco un nuovo documento, preparato dal Pontificio consiglio per la cultura e rivolto ai vescovi e alle organizzazioni cattoliche. Nel testo intitolato «Per una pastorale della cultura» e presentato ieri dai cardinali Paul Poupard e Carlo Maria Martini, c'è infatti un diretto suggerimento alle diocesi affinché organizzino «vere e proprie campagne pubblicitarie e persino spot, per mettere in luce valori cristiani essenziali a una cultura veramente umana». La Chiesa non è nuova a questo tipo di esperienza. Uno sguardo positivo e carico di ottimismo sulle moderne strategie di comunicazione era già contenuto in «Etica nella pubblicità», documento del pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, pubblicato nel febbraio 1997. Sul versante più concreto, si può ricordare la fortunata campagna di spot voluta dalla Cei in favore dell'otto per mille - unico esempio di pubblicità firmata dalla Chiesa italiana allo scopo di autofinanziarsi e finanziare le sue opere caritative - o il recente uso dell'immagine del Papa per pubblicizzare alcuni prodotti (dalla Pepsi Cola alle patatine fritte), che è servito a pagare in parte i costi della visita di Giovanni Paolo Il a Città del Messico lo scorso gennaio- Ma un invito cosÏ esplicito da parte del Vaticano ai vescovi costituisce una novità, anche se il cardinale Martini ha tenuto a precisare la distinzione che deve esistere tra apostolato, anche attraverso i media, e proselitismo, che ha una connotazione negativa in quanto non valorizza la libertà dell'interlocutore. Perfettamente d'accordo con la decisione di usare gli spot per propagare i valori cristiani è il fotografo Oliviero Toscani:«La Chiesa è una comunicatrice formidabile da duemila anni -spiega al Giornale - che cosa sono gli affreschi della Sistina se non pubblicità e comunicazione?». Per Toscani la Chiesa "ha un testimonial d'eccezione che è Gesù crocifisso» e «ha inventato la comunicazione moderna attraverso le immagini, i simboli e le icone. E' giusto che se ne riappropri». Il fotografo non crede che alla base questa nuova strategia vi sia il timore di perdere «quote di mercato» la paura di non fare più presa sulla società e sui giovani: «Non penso sia questo il motivo. Comunicare serve a far capire - conclude - e capitalizzare ciò che si è». Meno entusiasta la reazione dello Scrittore Vittorio Messori. La questione è sempre la stessa ed è già stata ben inquadrata dal Cardinale Ratzinger - spiega -: il problema non è tanto quello dei mezzi dei media, ma quello del messaggio, cioè di che cosa diciamo» «Che cosa comunichiamo con gli spot? - si chiede lo scrittore -. Il solito messaggio buonista? La solita melassa dei buoni sentimenti? Se è così, anche la pubblicità non avrà successo perché il sale insipido non serve più a nessuno. Dobbiamo invece ritrovare i contenuti, non concentrarci sui supporti mediatici». Al di là del passaggio in favore degli spot, il documento critica il fenomeno della secolarizzazione che rischia di svuotare di significato la famiglia stessa. Ecco allora la necessità per i pastori di offrire risposte che utilizzino tutti gli strumenti della comunicazione moderna, favorendo la formazione di «giornalisti, autori ed editori con vasti orizzonti culturali e forti convinzioni Cristiane». Apprezzamenti positivi su Internet, anche se, avverte il cardinale Martini, "resta un mezzo e dipende da come lo si usa: basta pensare alla pedofilia». Non manca, infine, una velata critica ai giornalisti. «Le loro domande - rileva il Pontificio consiglio per la cultura - talvolta sono causa di imbarazzo e deludono, quando non corrispondono molto alla sostanza dei messaggio che dobbiamo trasmettere». «Ma tali domande sconcertanti - ammette subito dopo il documento - sono spesso quelle della maggior parte dei nostri contemporanei».

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